30 Marzo 1951
Alla vigilia delle nozze di diamante muore a Tonadico Bortolo Zagonel, detto l'aquila delle Dolomiti, uno dei pionieri dei nostri monti, fulgido esempio di guida e di scalatore nella storia dell'alpinismo, aveva 83 anni.
Formò con Michele Bettega e Giuseppe Zecchini il primo nucleo delle guide di San Martino di Castrozza, gli arditi scalatori che unitamente agli alpinisti inglesi e tedeschi fecero conoscere a tutto il mondo il gruppo delle Pale di San Martino.
Fra le sue innumerevoli e storiche scalate, ricordiamo nel 1892 la parete sud ovest della Rosetta, nel 1893 la cima Pradidali, nel 1889 la cima di Val di Roda, nel 1898 la cresta nord ovest della Pala di San Martino dopo 8 ore di arrampicata, nel 1901 la parete sud della Marmolada.
Una delle sue più belle imprese è la scalata della parete sud della Marmolada (m.3342), effettuata con l'inglese Beatrice Tomasson, un'infermiera innamorata delle nostre montagne, che durante l'inverno risparmiava soldo su soldo per venire ad arrampicare sulle nostre Dolomiti.
A soli vent'anni Bortolo Zagonel ottenne la patente di guida alpina, con il merito di individuali azioni di soccorso alpino.
I primi tempi fece il portatore, accompagnando i clienti della guida Michele Bettega.
Finchè un giorno dimostrò le sue capacità recuperando dei biglietti lasciati dal Bettega e i suoi clienti sul Cimon della Pala, nella scalata del giorno prima.
Il Zagonel era salito fin lassù per dimostrare a Michele Bettega che poteva fare da solo.
Cosa che da quel giorno fece.
Continuò la sua attività fino a 75 anni, con più di 300 ascensioni al Cimon della Pala.
Fu l'ultimo dei tre pionieri, Bettega e Zecchini, a scomparire.
Nel settembre 1942, Bortolo, con un collega più giovane salì, per l'ultima volta la via del cammino della Rosetta, la mitica aquila è ormai stanca.
Così Guido Rey, il poeta del cervino, autore di una guida alpinistica e suo cliente, descrive Bortolo Zagonel e Michele Bettega a San Martino nell'estate del 1912:
"essi sono rimasti dei montanari schietti, quasi siano ignari delle loro glorie e solo consci del proprio vigore; umili, di quella umiltà dignitosa e cordiale che di alcuna delle grandi guide nostre, fece degli amici ad alpinisti illustri di ogni paese.
Squadrando Bortolo Zagonel, pare tratto fuori da un macigno, tanto è saldo e massiccio che ha un volto impastato di bontà ed astuzia".
Il venerdì Santo, in passato, durante la Quaresima, la frequenza della chiesa era numerosa ed assidua, sia per le prediche del Quaresemal, (il religioso che veniva da fuori, solitamente un frate, per sostituire il parroco, esclusa la Settimana Santa, nelle particolari prediche quaresimali), che per la Settimana Santa con le sue intere quaranta ore di adorazione, ed ancora per la funzione della Via Crucis.
Rispettato era anche il sacramento della penitenza che tutti affrontavano perché tutti dovevano portare a casa il Santino pasquale.
La sera del venerdì Santo, calate le tenebre, si svolgeva la solenne processione.
Ognuno aveva un lume in mano e le donne certe candeline colorate (maiol), tanto sottili e lunghe che stavano intrecciate e si sfilavano man mano, che la cera si consumava.
Ogni finestra aveva i suoi lumi e nei campi e sui monti ardevano grandi falò. Sugli scalini delle case, sulle ringhiere dei poggioli lunghe file di lumicini ricavati da gusci di noce o lumache; e poi ancora quadri, statuette, simboli della Passione e crocifissi dappertutto.
Un trionfo di luci simbolo di una fede profonda.
L'osservanza del digiuno e dell'astinenza dalla carne al venerdì, specie in Quaresima, era molto scrupolosa, addirittura c'era qualche anziano che si vantava di non aver mai nella sua vita mangiato carne il venerdì. Al Sabato Santo, in passato, la mattina, le donne esponevano nelle scansie delle cucine i rami più belli, resi lucenti da un'accurata pulizia con farina di granoturco ed aceto, quindi al suono del gloria, uscivano ad attingere l'acqua perché credevano che lavandosi gli occhi in quel momento, sarebbero state preservate tutto l'anno da ogni male.
Fortunato era ritenuto chi nasceva durante il periodo pasquale perché sarebbe stato battezzato con l'acqua da poco benedetta, tanto che i genitori in segno di riconoscenza regalavano al sacerdote, che officiava il rito del battesimo, un capretto coronato di fiori.
Anche allora, simbolo della Pasqua era l'uovo, non ancora quelli di cioccolato o con la sorpresa, ma naturali, che venivano tinti in molti modi, soprattutto servendosi di colorazioni estratte da ortaggi, erbe e frutta.
Anche nelle nostre zone, in molte case a Pasqua si mangiava il capretto, accompagnato dai "radici", che crescono spontaneamente nei nostri prati, a volte conditi con il lardo o la pancetta.
Il dolce pasquale non era la colomba ma la pinza, una ciambella che tradizionalmente veniva preparata solo in occasione di questa festività, nelle osterie la si accompagnava con la birra, bevuta nelle classiche, larghe tozole, i bicchieri da mezzo litro, appositi per questa bevanda.
Un'altra delle tante superstizioni in cui credevano i nostri avi, era quella che bevendo l'acqua durante il suono delle campane che diffondevano il "Gloria" del Sabato Santo, si avrebbe goduto buona salute per tutto l'anno venturo.
Durante la Settimana Santa, si udiva il caratteristico suono della batola, strumento a manovella, formato da ingranaggi di legno che, urtandosi, emettono un suono particolare e con il quale, ancora oggi, vengono sostituite le campane, fino al Gloria del sabato Santo.
I bambini, affascinati da quel "rumore" strano, facevano a gara per poterle usare.
La batola grande, tanto grande da ricordare gli ingranaggi di un mulino, era recata su tutti i crocicchi, seguita da un codazzo di bimbi, che prima di caricarla urlavano a squarciagola: "la prima (o seconda o terza) volta di uffizi", frase che riecheggiava poi, lungo le vie e le piazze dei paesi.
Il tenore di vita, in passato, era semplice, le esigenze poche, e la Pasqua rallegrata dall'arrivo della primavera, dopo il lungo inverno, era una festa molto attesa e vissuta con molta gioia.
Da qui il detto "content fa na Pasqua", per indicare una persona molto contenta, felice,